Per fare astronomia non servono telescopi. Seriamente, non sto scherzando.

Il primo strumento è gratuito e alla portata di tutti. È l’occhio, lo stesso occhio che ha guidato per secoli le osservazioni degli astronomi di mezzo mondo, dai greci agli arabi, passando per i cinesi e gli indiani.

È ad occhio nudo che gli studiosi ellenici hanno tracciato le costellazioni, popolando il cielo dei propri miti. Sempre ad occhio nudo si sono accorti che tra gli astri fissi ve ne erano anche alcuni “erranti”: i pianeti. I grandi astronomi arabi del IX e X secolo dopo Cristo avevano solo i loro occhi a guidarli quando hanno letteralmente nominato la volta celeste, facendo sì che ancora oggi, sotto le cupole degli osservatori, si usino nomi del tutto simili a quelli che risuonavano mille anni fa a Baghdad, Damasco e in riva al lago d’Aral.

La panchina all’imbocco della Val d’Ambra in una serena notte di primavera. (Foto: Luca Berti e Enea Ferrari)

Certo, settecento anni più tardi l’invenzione del cannocchiale avrebbe permesso di fare passi da gigante nello studio dei corpi celesti. E non c’è dubbio che un pianeta, una galassia, di un ammasso stellare, visti all’oculare di un moderno telescopio tolgono il fiato. Il punto però² non è questo. Intanto alcuni dei fenomeni più spettacolari devono necessariamente essere osservati a occhio nudo (provate a fare diversamente la notte di San Lorenzo e non vedrete granché), ma, soprattutto, per approfittare della magia di un cielo stellato non c’è bisogno di spendere soldi. Non all’inizio, almeno; basta qualche piccola conoscenza e qualcuno che vi indichi cosa guardare. Magari raccontandovi una storia o due nel frattempo.

Stasera – una qualsiasi sera tra fine aprile e inizio maggio – vado in Val d’Ambra per dare un’occhiata al firmamento. Se vi va, seguitemi. Prima in queste poche righe, poi ripercorrendo il viaggio.

Tanto per orientarsi

Quando arrivo all’imbocco della valle sono le 21 e il cielo inizia a imbrunire. Mi siedo sulla panchina di legno che sovrasta l’ultima curva che piega verso la diga. Dietro di me la piazzola da dove di giorno decollano e atterrano gli elicotteri. La bassa Valle sotto di me scorre da nord-ovest a sud est, il che significa che il nord è dritto davanti a me, proprio sopra l’antenna del Matro. L’est, di conseguenza, è verso il Pizzo Magno, l’ovest esattamente dall’altra parte, verso sinistra. Va da sé che il sud è dietro. Fatta conoscenza con la disposizione dei punti cardinali, posso iniziare la serata.

Venere

A ovest, se non è già  sparita dietro la montagna (verso metà  maggio), una lucina inizia a vincere il bagliore residuo del cielo diurno. È Venere, secondo pianeta in ordine di distanza dal Sole (la Terra è il terzo). Il suo bagliore regna incontrastato nel firmamento ancora inondato di luce residua; con la sua luminosità  che tocca le -4,5 magnitudini (più è piccolo il numero, più è luminoso l’oggetto), È l’astro più brillante in cielo dopo Sole (-26,8) e Luna (piena: -12,74). Avendo un telescopio ne vedremmo il disco planetario per metà illuminato e per metà in ombra, un po’ come se stessimo guardando la nostra Luna da molto lontano. In modo del tutto simile al nostro satellite, anche Venere ha delle vere e proprie fasi che si manifestano ai nostri occhi semplicemente perché la Terra ruota su un’orbita più esterna, più distante dal Sole. Se i ruoli fossero invertiti, cioè fossimo noi a trovarci tra il Sole e Venere, allora sarebbero i venusiani ad ammirare le fasi del nostro pianeta mentre noi vedremmo loro come vediamo, ad esempio, Marte, ovvero quasi sempre con il disco interamente illuminato.

Per dirla altrimenti: le fasi sono solo visibili a due condizioni: la prima è che il pianeta orbiti più vicino al Sole rispetto all’osservatore e la seconda a che sia il Sole al centro del sistema solare e non la Terra. Una constatazione che servì all’inizio del XVII secolo a Galileo Galilei, primo osservatore delle fasi di Venere, per sostenere la teoria dell’eliocentrismo da opporre a quella geocentrica di Aristotele e Tolomeo. Oggi però niente strumenti. Bisognerà  che mi limiti a contemplare lo spettacolo, per poi magari scoprirmi a pensare, non senza una certa emozione, che la Terra e tutti i suoi abitanti brillano con la stessa intensità  nel cielo venusiano.

Le fasi di Venere nell’arco di sei mesi (Foto: Chris Proctor / TBGS Observatory)

Già , il cielo venusiano: uno strato denso di nubi di acido solforico. Roba da rendere superfluo qualsiasi alter ego alieno di Binagi, dal momento che lassù fare le previsioni è quasi scontato: copertura nuvolosa perenne con occasionali rovesci di acido. L’atmosfera venusiana è la più densa del sistema solare: in superficie la pressione è 92 volte quella terrestre; altro che anticiclone della Azzorre: sarebbe abbassata per stritolare qualsiasi incauto astronauta. L’ambiente inospitale è completato dal fatto che l’aria è quasi interamente composta di anidride carbonica e raggiunge una temperatura media di 474 gradi centigradi. Un vero inferno dovuto sia alla maggiore vicinanza al Sole, ma soprattutto all’effetto serra creato dal CO2.

Non è un bel posto dove vivere. Stranamente, aggiungerei, dal momento che sulla carta è il pianeta più simile alla Terra che esiste là  fuori. Gli esperti di planetologia ritengono addirittura che Venere e il nostro pianeta abbiano avuto un’infanzia simile. Come da noi, anche lassù in tempi remoti vi sarebbe stata dell’acqua. Acqua che, però, sarebbe evaporata a causa delle altissime temperature. Il vapore non avrebbe resistito granché nell’atmosfera inospitale del pianeta, finendo per scindersi in ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo sarebbe stato poi lentamente trascinato nello spazio interplanetario dal vento solare, che avrebbe consegnato così di fatto alle stelle metà  dei componenti che una volta formavano gli oceani del neonato pianeta.

Do un’ultima occhiata al puntino luminoso. Ora tocca i bordi della montagna. Nei prossimi giorni continuerà  a scendere, sparendo dal cielo serale entro fine maggio. Ricomparirà in quello di metà giugno, all’alba e ad est. Entro inizio agosto brillerà  appena sopra il Pizzo Magno. Torneremo a vederlo la sera solo nel luglio del 2013, pochi minuti dopo il tramonto. Non lo vedremo mai invece in piena notte. Il perché è presto spiegato: si tratta di un pianeta interno, con un’orbita che quindi rimane per lo più vicino al Sole. Per parte del tempo, rispetto al nostro punto di vista, Venere si trova troppo vicina alla nostra stella e la sua luminosità  viene offuscata. Lo vediamo però quando si “allontana” abbastanza da poter brillare nel cielo serale o mattutino. Per questo è noto anche come la stella del mattino o la stella della sera.

La stella polare

Nel frattempo il cielo si è fatto ora più scuro. Torno a guardare in avanti. A circa due spanne dall’orizzonte (una spanna sopra la cresta delle montagne), c’è il faro guida di ogni peregrinazione tra gli astri della volta celeste: la stella Polare. La si riconosce perché da lei parte, verso destra, un semiarco formato da altre tre stelle che punta verso l’alto. L’ultima di queste fa anche da vertice per il rombo che chiude la figura dell’Orsa Minore, la costellazione di cui fa parte.
Attenzione però: se cercate la Stella Polare non cercate nulla di straordinario, altrimenti non la troverete. Non aspettatevi insomma che si distingua dalle altre, perché non lo farà: non è neppure la più luminosa. La caratteristica che la rende così speciale non c’entra niente con la sua apparenza, ma piuttosto è legata al fatto che l’asse di rotazione terrestre punta in pieno verso quella direzione. Per questo Polaris (questo il suo nome) sembra essere il perno attorno a cui ruota tutto il resto del cielo. Una particolarità  che, in ogni caso, non è eterna. Già, perché l’asse del nostro pianeta, un po’ come accade alle trottole a fine corsa, si sposta e cambia posizione seguendo un percorso circolare che si chiude ogni 26 mila anni. Il fenomeno è detto “precessione degli equinozi”. Se oggi a indicare il nord è Polaris (distante 433 anni luce e composta da tre stelle, di cui la principale è quaranta volte più grande del Sole), 14 mila anni fa era Vega (la quinta stella più luminosa del firmamento, distante 25 anni luce e due volte più grande del Sole) il perno del cielo paleolitico. Tra 26 mila anni toccherà  di nuovo a Polaris, ma prima sarà  il turno, fra duemila anni, di Alrai (costellazione di Cefeo), Alderamin (pure in Cefeo, fra 5’500 anni) e Rukh (Cigno, 9’000 anni).

Qualche altra indicazione

Rivolgendo lo sguardo a sud-ovest sopra la conca della Val d’Ambra, si può notare un puntino luminoso chiaramente colorato di rosso. È Marte, il quarto pianeta del nostro sistema solare. Ne parleremo. A piombo sopra le nostre teste c’è poi un’altra figura celeste che, ancora più dell’Orsa Minore, permette di orientasti in cielo. Il suo disegno può essere usato per ritrovare diversi oggetti nella volta celeste. È l’Orsa Maggiore. La si può riconoscere perché congiungendo le stelle si può tracciare la sagoma di un carretto del tutto simile – ma di dimensioni maggiori – rispetto a quello che contiene la stella Polare. Il manico è formato da tre stelle. Guardate la seconda. Se accanto a lei vedete un’altra stellina, complimenti: avete una buona vista. Vi presento Mizar (la stella più luminosa) e Alcor, chiamate anche il Cavallo e il Cavaliere seguendo un’antica tradizione persiana. Si tratta di una stella doppia, dal momento che i due astri si influenzano a vicenda. La possibilità  di vederle entrambe ad occhio nudo è data solo a chi ha buona vista. Per gli altri, come me, serve un binocolo. Ma lo spettacolo È assicurato. Con un buon telescopio si potrebbero addirittura vedere le stelle compagne di Alcor e Mizar.

Sono le 24. Tempo di rientrare, in attesa di una prossima serata sotto le stelle della Val d’Ambra.

Pubblicato su “La Finestra” numero 22″

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