L’immagine sul vecchio schermo a cristalli liquidi modello 2040 lampeggiò solo per qualche frazione di secondo prima di spegnersi. Jan pensò che in un mondo dove le innovazioni tecnologiche erano all’ordine del giorno fosse ridicolo ancora lavorare su computer vecchi di 10 anni. Poi però si ricordò di ciò che gli aveva detto, poco più di un mese prima, il direttore dell’osservatorio presso cui lavorava:
«È già bello riuscire ad avere i fondi per continuare a mantenere in orbita quel catorcio di satellite!»
Il New Tech Observatory, fondato nel 2008 da alcuni ricchi impresari, era stato il primo osservatorio privato basato su telescopi orbitanti della storia; tuttavia il primato temporale non ne aveva fatto la fortuna. Come tutte le buone idee in breve tempo venne copiata e ampiamente superata sia per investimento che per qualità . In meno di una ventina d’anni la tecnologia impiegata dal NTO era diventata obsoleta e i finanziamenti non bastavano più per permettere il lancio di nuovi satelliti nonostante le più importanti agenzie spaziali avessero proposto prezzi a dir poco vantaggiosi. Gli esperti del settore economico avevano dato qualche possibilità alla società se avesse messo, per così dire, i piedi per terra. Il fondo cassa fu così investito per comprare tre osservatori di media dimensione situati in tre diverse parti del mondo.
“Già , però nessun economista avrebbe potuto prevedere che nel giro di pochi anni anche quelli si sarebbero rivelati inutili”, pensò Jan mentre osservava dalla finestra l’eterna nebbia che avvolgeva ormai buona parte del globo terrestre. Anche quella sera niente stelle. Le emissioni di anidride carbonica avevano aumentato l’effetto serra fino a provocare un massiccio incremento dell’evaporazione ed un conseguente accumulo di nubi nell’atmosfera. Erano almeno una quindicina di mesi che in cielo non si vedeva altro che foschia e da due settimane non smetteva di piovere. Fu a quel punto che Jan ebbe la strana sensazione di aver visto l’universo solo attraverso le immagini che lo schermo di un vecchio computer mostrava, imboccato, per così dire, da un telescopio orbitante che, almeno in teoria, avrebbe dovuto essere smantellato già da cinque anni.
Se ne stette lì impalato per qualche istante, poi si volse, prese gli ultimi dischi dalla scrivania sovraffollata di vecchi ritagli di giornale e se li infilò nella borsa, spense le luci del laboratorio e si immerse nell’inteso traffico della metropoli. Voleva arrivare a casa prima della moglie e dei bambini che tornavano proprio quella sera da una vacanza in una di quelle specie di colonie spaziali turistiche che da qualche tempo monopolizzavano il mercato e le vetrine delle agenzie del centro.
Una volta le vacanze si passavano alle Bahamas, alle Canarie o in qualche isola del sud Pacifico, ma ora ogni posto valeva l’altro. Ovunque si andasse il paesaggio era grigio e fumoso. Ogni tanto qualche squarcio tra le nubi lasciava trapassare un timido raggio di sole, ma poi la luce della stella tornava a nascondersi dietro la fitta nebbia illuminando solo per diffusione il paesaggio. Alcuni imprenditori avevano avuto così la geniale idea di proporre la costruzioni di enormi stazioni orbitanti in grado di accogliere centinaia di ospiti paganti. I fatti dettero loro ragione, e in pochi mesi tutti coloro che avevano investito qualcosa erano stati ampiamente risarciti.
“Sono finiti i tempi in cui le stazioni spaziali servivano per la ricerca scientifica” penò Jan mentre imboccava a tutta velocità la direttissima per la periferia. Amava particolarmente i “bei periodi andati”, come li chiamava lui, e per cercare di farli rivivere si era circondato di tutti gli articoli di giornale disponibili dalla messa in orbita della MIR fino a quando la carta stampata non era stata sostituita dall’informazione multimediale.
Il giovane astronomo si sorprese a sognare ad occhi aperti ciò che aveva solo potuto leggere nei libri di storia e a ripassare, come un film che si riguarda più volte perché piace, il corso degli eventi che avevano portato al mondo in cui si trovava immerso.
Dopo i ripetuti tentativi da parte del governo moscovita di prolungare la vita dell’ultimo baluardo della Russia spaziale, la MIR fu degradata ufficialmente al ruolo di rottame spaziale nel giugno del 2002 e due mesi dopo si schiantò nell’oceano Atlantico a pochi chilometri dalla costa africana. Intanto la nuovissima e modernissima ISS aveva già cominciato ad ospitare i suoi primi inquilini . Tre astronauti (Sergei Krikalev, Bill Shepherd e Yuri Gidzenko gli parve di ricordare) furono coloro che ebbero l’onore nel novembre del 2000 di accedere per primi alla stazione costata soldi e impegno alle maggiori agenzie spaziali del pianeta. L’esperienza dei tre fu poi ripetuta da diverse altre squadre di astronauti ben addestrati e pieni di spirito scientifico. A bordo furono effettuati diversi esperimenti di sopravvivenza a gravità zero e di monitoraggio delle reazioni del fisico umano a condizioni estreme. Tutto ciò in vista di una futura missione sul pianeta rosso.
“Marte, già!” (un brusco colpo di volante e una nuova sterzata a destra) “L’obbiettivo tanto ambito dall’umanità intera: andare su Marte.”
Intanto che scienziati di tutto il pianeta si scervellavano su come poter riuscire a mantenere in vita tre astronauti durante i tre anni che la missione marziana avrebbe richiesto, veloci ed economiche sonde lasciavano sempre più frequentemente la Terra con destinazioni varie e, a parte quando si schiantavano per errori grossolani di calcolo, quasi tutte inviavano ai rispettivi centri di controllo informazioni preziose per capire il sistema solare. Tra le missioni più riuscite vi furono quelle programmate dall’Ente spaziale europeo (che si stava guadagnando sempre più stima e fiducia a livello mondiale) e alcune dell’Agenzia spaziale giapponese che permisero di capire meglio la Luna e i misteri della sua formazione.
La Nasa intanto sembrava presa dai suoi problemi. Nell’anno 2000, a causa dei vari incidenti alle proprie sonde, fu costretta a rivedere le proprie visioni ottimistiche sulla conquista del pianeta rosso, ma la mazzata finale l’agenzia statunitense la ricevette dal convegno dell’ONU del marzo 2006, che rifiutò in modo categorico di permettere l’utilizzazione di materiale fissile al di fuori dell’atmosfera terrestre. I rappresentati delle Nazioni Unite erano infatti preoccupati per l’enorme sviluppo industriale che aveva conosciuto in quegli anni la Cina. Improvvisamente i tempi preventivati per la messa in pista di un progetto concreto per trasportare il primo equipaggio umano su Marte si dilatarono e lo fecero in modo così impressionante che nessuno avrebbe scommesso che poi nel 2029, finalmente, il governo americano stanziasse i fondi necessari per l’impresa. La condizione era però chiara: gli Stati Uniti avrebbero messo a disposizione una certa somma, il resto i responsabili del progetto avrebbero dovuto ottenerlo da finanziatori privati e dalle altre agenzie spaziali interessate al progetto.
In una scena che assomigliava tanto, forse troppo, a quella che ritraeva Neil Armstrong scendere la scaletta del LEM, Christoph Marsan toccò la superficie marziana alle 18:42 e 33 secondi ora di Greenwich del 2035. Nonostante l’immagine arrivò con qualche minuto di ritardo sugli schermi terrestri miliardi di telespettatori in tutto il mondo sfidarono i fusi orari per vedere in “diretta” il formarsi delle orme dell’astronauta sulla rossa sabbia del pianeta. Jan quella scena se la ricordava bene, nonostante avesse 11 anni. Quello che si ricordava più di tutto furono i commenti e l’euforia della gente. Tutti erano entusiasti, affascinati, completamente rapiti da quella nuova conquista. Su un altro pianeta avrebbe “sventolato”, da quel momento, non più la sola bandiera americana, ma quella della Terra intera. Tale infatti era la portata dell’operazione, che finì per coinvolgere più di 40 differenti nazioni.
Non ci volle molto però all’irrequieto animo umano per far scadere l’epica impresa a semplice fatto da narrare come favola ai nipotini prima di metterli a letto. I tempi in cui si trovava a vivere erano popolati da nuovi sogni e colmi di nuovi traguardi da raggiungere. Sonde nuove e fiammanti venivano lanciate dalla terra in ogni direzione, e ciò succedeva tanto frequentemente da creare attorno a sé un alone di consuetudine, sentimento che in genere sfociava in battute del genere: “Forse è meglio che non esistano voli spaziali interplanetari per turisti: con tutte quelle sonde in giro si rischierebbe un buco nello scafo!”.
Intanto gli astronomi esploravano le zone più remote del cosmo con enormi telescopi orbitanti di nuova generazione (quelli che il NTO non avrebbe mai potuto permettersi, tanto per intenderci). Erano così in grado, stando seduti comodamente in una poltrona, di analizzare una grandissima serie di fenomeni interessanti. L’unica curiosità che pareva non essere stata ancora appagata “almeno nella visione della massa ignorante” era quella di trovare un pianeta simile alla terra, orbitante attorno ad un’altra stella. Gli sforzi in questo senso continuavano già da diversi decenni, e gli addetti non davano l’impressione di volersi arrendere.
“Pensiamo di saperne tanto sul nostro universo, ma in realtà abbiamo appena cominciato a mettere il naso fuori dalla culla”, concluse infine Jan parcheggiando la macchina nel garage di casa.
Aprì la portiera. L’aria fredda della sera lo investì in piena faccia e gli penetrò sotto il maglione facendolo rabbrividire. Dei fari illuminarono per qualche istante la notte mentre un taxi si fermava a pochi metri da lui. Una portiera si aprì e uscì una testolina di un ragazzo di non più di 10 anni. Non lo riconobbe, ma il bambino riconobbe lui.
«Papà» gridò lanciandosi nelle sue braccia «lo sai che siamo andati in vacanza in un posto bellissimo? Ho visto perfino le stelle! Sono così belle!»
Jan gli diede un bacio e lo strinse forte. Poi il bambino lo guardò negli occhi e con atteggiamento convinto esclamò: «Quando sono grande voglio togliere tutte le nuvole; così tutti i bambini del mondo, anche quelli poveri, potranno vedere le stelle!»
Sulla guancia di Jan apparve una lacrima, mentre il bambino correva incontro alla madre che gli tendeva la mano per incitarlo a seguirla in casa.
«Lo so figliolo: non c’è niente di più bello di un cielo stellato!»
***
Postfazione
Alcuni rispuntano in vecchi e polverosi cassetti, altri, più confacentemente all’era digitale, tra vecchi ciddì abbandonati su una scrivania. Ed è proprio su uno di quei dischi che ho ritrovato questo racconto scritto nel 2000 per un concorso indetto allora dallo Swiss Space Office e rivolto a tutti gli studenti liceali della svizzera. Se non ricordo male si chiedeva di immaginare cosa ne sarebbe stato dell’esplorazione spaziale nel 2050. Vi partecipai su suggerimento di Stefano Sposetti, mitico docente di fisica del Liceo di Bellinzona. Lo pubblico qui perché leggendolo mi ha strappato un sorriso e acceso la miccia di tanti ricordi, dal primo viaggio a Losanna, dove conobbi Claude Nicollier (per me un mito vivente), alla visita al centro di ricerca spaziale dell’Esa a Noordwijk, vicino ad Amsterdam. Cose mie, certo, cose belle che devo tutte a queste poche righe un po’ mal raffazzonate.
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