Mourad Hachid è un pezzo d’uomo con i suoi 190 centimetri e tot d’altezza. Sguardo gentile, parlata calma, sembra non aver paura di nulla. Non sussulta nemmeno quando un petardo esplode col fragore di una bomba a pochi passi da noi. E mentre mi guardo in giro con aria preoccupata, lui continua a parlare come se nulla fosse.

Eppure Mourad Hachid paura ne ha avuta, eccome, vent’anni fa quando ogni giorno rischiava la vita a causa della sua unica colpa, imperdonabile nell’Algeria degli anni Novanta: essere un giornalista che vuole fare il suo lavoro, raccontare la realtà  scomoda di un Paese in bilico tra regime e terrorismo. Oggi la situazione del Paese africano è diversa, eppure – come allora – sarebbe meglio non pubblicare, giusto per vivere tranquilli. La tranquillità  però a Mourad non interessa, almeno fintanto che non sarà  compatibile con la sua professione.

“Bang!” Un altro mortaretto scoppia, sembra sotto la sedia. Nel frattanto Hachid va avanti a raccontare di essersi appassionato alla carta stampata da giovanissimo, quando aveva iniziato a seguire con attenzione il mestiere del suo vicino di casa, giornalista e scrittore. Il primo quotidiano lo prende in mano prestissimo per imparare a leggere il francese. Il colpo di fulmine è immediato e dopo gli studi in sociologia, nel 1992 imprime una svolta alla propria vita e sceglie la carta stampata. Lo assumono a ‘El Watan’ (La Patria), principale periodico francofono del Paese, giusto in tempo per finire nel mezzo della sanguinosa lotta tra i terroristi del Fronte islamico di salvezza (Fis) e il regime militare. Regime che nel gennaio di quello stesso anno aveva rovesciato il governo islamico costituitosi dopo le prime elezioni democratiche del Paese.

Tempismo sbagliato, perché in quel clima i giornalisti erano i nemici di tutti: bersagli ambiti dai terroristi – perché ammazzare chi lavorava nell’informazione, anche se semplice segretario di redazione, voleva dire assicurarsi visibilità  sui media – e vittime della censura del governo, che non voleva si parlasse troppo di certe cose, soprattutto se imbarazzanti per il potere politico.

Mentre mi racconta la sua storia, non posso fare a meno di pensare che l’impassibilità  di Mourad di fronte ai botti fatti esplodere a pochi passi da noi nel cortile del Centro di cultura contemporanea di Barcellona da alcuni giovani (strano, alla festa di San Juan mancano ancora dieci giorni) sia dovuta alla sua esperienza di cronista in un Paese che non ama i cronisti. «Hai mai avuto paura?», chiedo.  «Certo – risponde mentre sorseggia la ‘cervesa’ davanti a cui avevamo deciso, 24 ore prima, di sederci e chiacchierare –. Ci sono state situazioni complesse, al minimo articolo che non piaceva alle autorità  locali o ai fondamentalisti, ricevevo minacce a non più finire. Nel 1993 ho gettato la spugna per un anno e mezzo, sconvolto dell’assassinio del primo collega ad Algeri. Poi però mi sono detto che non potevo continuare a nascondermi e che ogni mestiere ha un certo grado di rischio. In fondo morire per fare quello in cui si crede poteva anche andarmi bene». Morire, mica per finta: ai tempi le pallottole volavano rasoterra in Algeria. «La situazione era complicata e quasi ogni mese un giornalista veniva ammazzato. Era necessario fare il proprio lavoro, ma fare molta attenzione. Bisognava evitare di seguire ogni giorno lo stesso percorso e mai frequentare lo stesso bar per troppo tempo. Ci ho fatto l’abitudine e alla fine la paura si è trasformata in semplice rischio, il rischio del mestiere».

“Non bisognava fare lo stesso percorso tutte le sere. Alla fine ci ho fatto l’abitudine e la paura si è trasformata in semplice rischio del mestiere.”

«Sembra quasi che facessero la guerra ai giornalisti…», commento in modo un po’ ingenuo. «Era una guerra! Assassinando dei colleghi si voleva impedire loro di scrivere, di raccontare, di esistere. Il terrorismo dei tempi era come il regime della Corea del Nord: voleva isolare il popolo in modo che non potesse sapere quanto stava succedendo. Ciò può accadere solo se si uccide il giornalismo. Ancora oggi, vent’anni dopo, per certi versi in Algeria la tendenza è questa: il regime non vuole che si raccontino certe verità  e le inchieste a mezzo stampa – quelle vere, che scoperchiano i vasi di Pandora degli amici degli amici – non vengono tollerate». E si scatenano le rappresaglie, oggi come allora. «Ai tempi per i giornalisti scomodi c’era la prigione, oggi ci sono le pressioni sugli inserzionisti e il blocco delle rotative per le testate ‘non allineate’». Una rappresaglia per nulla difficile da attuare, visto che nel Paese africano quasi la totalità  dei 120 quotidiani sul mercato è stampata grazie a rotative dello Stato. E ogni scusa è buona per farli chiudere. Come dopo le elezioni presidenziali dell’aprile scorso, quando le testate che non hanno sostenuto la rielezione di Bouteflika se la sono vista brutta. «A un quotidiano è stata sospesa la pubblicazione per via dei debiti accumulati verso la tipografia. La cosa strana è che altri fogli, vicini al potere, sono molto più indebitati, eppure continuano a stampare a spese dello Stato». Con ‘El Watan’ il trucchetto non funziona, visto che è uno dei pochi quotidiani che, dopo anni di peripezie, si è conquistato il lusso di poter stampare in proprio. Ci sono però altri mezzi di pressione: «Siamo comunque stati messi in mora dal fisco per un totale di molte migliaia di euro mentre il potere pubblico ha fatto pressione sugli inserzionisti privati affinché togliessero le loro pubblicità  dalle nostre pagine. È il nuovo metodo che usa il regime algerino per punire chi non è d’accordo con loro».

Impossibile non pensare che in Svizzera e in Europa la stampa sia fortunata e con essa l’opinione pubblica. Eppure non poche persone continuano a considerare i professionisti dell’informazione come tendenziosi, un po’ carogne e un po’ scansafatiche. Un’immagine che fa sicuramente comodo a chi viene inchiodato da inchieste giornalistiche serissime e documentate. Per chi finisce su un quotidiano la prima linea di difesa è diventata spesso quella di accusare il quotidiano di tendenziosità .

Una strategia che in Algeria sembra non funzionare più, commenta Hachid. «Dopo 24 anni ci sono giornali che hanno acquisito una certa notorietà  proprio perché sono gli unici a parlare di temi scomodi che altri media non coprono. Il cittadino vede la corruzione, vede le ingiustizie e si affeziona a quelle poche testate che le mettono in evidenza».

Il rischio, obietto, è quello di diventare giornali populisti, di accarezzare il sentire popolare senza veramente spiegare davvero i problemi e senza chiedersi se i problemi davvero esistano. «Per noi a ‘El Watan’ il pericolo non è tanto di essere populisti, ma di essere elitisti. È vero: parliamo dei problemi della gente e rimettiamo in causa il funzionamento delle istituzioni, ma a volte tendiamo a rivolgerci solo a un pubblico colto». Anche per questo il quotidiano algerino ha speso molto nella formazione dei propri dipendenti. In totale dal 2008 ‘El Watan’ ha investito 170mila euro per corsi e approfondimenti, tutti tenuti all’estero, in Francia, perché in Algeria non esiste una scuola specializzata per formare professionisti dell’informazione.

“Su libertà  individuali e democrazia non siamo avanzati di un millimetro in 24 anni a causa di chi vuole mantenere il popolo nell’ignoranza”

Come è vista la stampa europea da oltre il Mediterraneo?

«Conosco poco la stampa europea – replica Mourad –. Conosco invece quella francese e credo che il fatto che i giornali appartengano a delle potenze economiche non sia normale. C’è poi l’atteggiamento verso il mondo arabo… I colleghi francesi hanno un comportamento insensato: ci dicevano che dovremmo tacere e lasciare governare gli islamisti senza nemmeno sapere cosa ciò voglia dire. Guardate l’Egitto, per esempio: gli islamisti hanno preso il potere, l’esercito ha destituito tutti, le frange estremiste hanno fatto del terrorismo e ora sono ai piedi della scala. È la stessa cosa che è successa in Algeria. Noi abbiamo perso 24 anni, non siamo avanzati di un millimetro su libertà  individuali e democrazia. Questo perché c’è sempre qualcuno che impedisce di avanzare. Il tutto è possibile perché il popolo viene mantenuto nell’ignoranza. Ecco perché l’informazione è cosa importante».

Un’osservazione che Hachid estende anche al continente europeo, Svizzera compresa. «C’è qualcosa di primordiale, che nessuno può negare: senza media non si può essere informati correttamente. Qualsiasi siano le fonti, solo l’informazione verificata, analizzata, scorticata da un giornalista è affidabile. Dimenticate i social network, che al massimo sono un amplificatore di verità». A volte anche di bugie clamorose. Perché nessuno sul web ha l’obbligo di dire la verità. I giornalisti sì, ricorda Mourad. «Prima di tutto vengono i fatti e se un amico si comporta male, lo diciamo senza problemi». La verità  prima di tutto. Senza paura e a costo di essere mal visti. A costo, a volte, della propria vita.

Articolo pubblicato su laRegioneTicino il 30 agosto 2014. Vietata la riproduzione, tutti i diritti riservati.


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